C’era una volta (e per fortuna c’è ancora) l’Aglio dell’Ufita

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Una bella storia da raccontare quella dell’Aglio dell’Ufita, che grazie alla tenacia dei coltivatori, ha trovato il modo di essere tramandata insieme ai suoi semi. Ne volete sapere di più?

Gli ultimi trent’anni sono contraddistinti da uno scenario simile per quanto riguarda le sorti di alcune colture. Sovente si è assistito all’abbandono degli ecotipi e varietà locali a favore di quelli stranieri o moderni, i quali garantivano una produzione più foriera, una lavorazione industriale più semplice e spesso anche un costo più basso. Tutto a discapito di coltivazioni di prodotti tipici locali, anche se dotati di proprietà organolettiche superiori,di cui ne esempio proprio l’Aglio dell’Ufita. Il ritorno della domanda al cibo autentico italiano e che rispecchi il territorio di appartenenza rappresenta la grande svolta degli anni recenti e supporta ancor di più l’impegno teso al recupero.

I bulbilli (questo il nome tecnico dei semi) dell’Aglio dell’Ufita hanno rischiato l’estinzione, evitata solo grazie all’impegno dei produttori, che ancora una volta si sono trovati nel ruolo di custodi della tradizione, anche solo per uso personale. Il Responsabile del Presidio Slow Food, Angelo Lo Conte fa trasparire dalle sue parole tutta la passione che, insieme a quella dei contadini, ha fatto sì che la coltivazione continuasse e si rinnovasse.

È stato necessario un censimento sul territorio avellinese, che ha permesso, grazie a sole 10 famiglie detentrici di semi, di recuperare gli ecotipi, analizzati per stabilire le caratterizzazioni e per registrare lo standard. Grazie a queste famiglie è stato possibile coltivare l’aglio irpino, uno dei tanti Prodotti Agroalimentari Tradizionali che collocano la Campania al primo posto in Italia per i PAT.

Il 2018 e il 2019 sono stati anni cruciali per il recupero dei bulbilli. Durante questo biennio, infatti, tutta la produzione dell’Aglio dell’Ufita non è stata destinata alla vendita ma ad uno scopo superiore, conservata per permettere di recuperare il maggior numero di semi possibile.

Qual è la sua origine?

L’origine dell’aglio è incerta. Ciò che si sa è che 4.000 anni fa veniva utilizzato dagli Egizi (testimonianza è il ritrovamento di resti di aglio nella tomba di Tutankhamon) e dai Sumeri. È citato nella Bibbia dove è descritto come “il bene più prezioso lasciato dagli Ebrei durante la fuga dall’Egitto”. Veniva somministrato agli schiavi perché ritenuto in grado di aumentare la resistenza fisica. L’aglio era utilizzato per allontanare i parassiti intestinali. Il suo lato medicamentoso viene poi ripreso anche dai Greci, che lo giudicavano ottimo tonico, curativo dell’asma, diuretico, antiveleno, vermifugo, rimedio per itterizia, dolore ai denti, eruzioni della pelle. Gli sportivi lo ingerivano prima delle competizioni. Nella Roma Imperiale l’aglio rappresentava il cibo di contadini e soldati. Questi ultimi utilizzavano l’aglio per prevenire le infezioni e per esaltare le virtù necessarie in guerra, tanto che la pianta divenne sacra a Marte.

Carlo Magno rese la sua coltivazione obbligatoria e così si è diffusa nel resto del territorio.

Nella zona avellinese, da sempre vocata alla coltivazione dell’aglio, nasce la coltivazione dell’Aglio dell’Ufita, proprio a ridosso della valle, un terreno che gli conferisce la sua peculiarità, ovvero la presenza di un’alta concentrazione di allicina (il composto solforganico che si sprigiona quando i bulbi vengono pestati o tagliati, che incredibilmente rappresenta il meccanismo di difesa dell’aglio da eventuali parassiti). Ma in tutta Italia, molte eccelse varietà meritano di essere menzionate, perché proprio come l’aglio bianco dell’Irpinia sono caratterizzate dal rischio di estinzione, ovvero l’Aglio Bianco Polesano DOP, Aglio di Vessalico, Aglio Rosso di Nubia, Aglio di Voghiera DOP (di una dolcezza incredibile), Aglio di Resia, Aglio di Caraglio, Aglio Bianco Piacentino IGP, Aglio Rosso di Sulmona, Aglio Rosa di Incastro e Aglio di Papaglionti.

Come si coltiva?

La semina avviene pressappoco tra fine dicembre e inizio gennaio, anche più tardi. I bulbilli, ovvero gli spicchi d’aglio che rappresentano i semi, sono messi a dimora subito sotto il livello del terreno con l’apice rivolto verso l’alto, per permettere al germoglio di bucare il terreno. Le tecniche di produzione sono rimaste invariate nel corso degli anni. L’appezzamento viene utilizzato una sola volta e poi destinato ad altre colture per non essere stressato. Dopo tre anni è possibile riutilizzarlo per la coltivazione dell’aglio irpino. Il terreno asciutto della valle dell’Ufita rende il prodotto un’eccellenza campana sotto il punto di vista organolettico.

Il raccolto avviene a mano, come del resto la semina, ed è effettuato dopo la terza settimana di maggio e fino a fine giugno. Si può scegliere di estrarre i bulbi quando le foglie sono ancora verdi, che sarà quindi consumato come aglio fresco, o rimandare a quando le foglie saranno secche, come aglio da serbo.

La coltivazione dell’aglio è sostenibile e biologica, non richiede particolari attenzioni, uso di agenti chimici e affini, e dispendio di acqua per l’irrigazione.

Come si riconosce l’Aglio dell’Ufita autentico?

L’Aglio dell’Ufita si riconosce per il colore della sua tunica esterna, un rosso tendente al violaceo, molto delicata, tant’è che tende a sfaldarsi facilmente. Anche per questo, per anni non ha rappresentato un prodotto preferibile rispetto agli altri. Anche adesso gli spicchi che ne restano scoperti vengono perlopiù indirizzati alla semina e non venduti. I bulbilli presentano una forma irregolare, affusolata ed arcuata, con faccia dorsale convessa. Sia il sapore, che l’aroma, sono molti intensi, tanto da essere oggetto di studio per l’aspetto sensoriale.

Cos’altro abbiamo scoperto?

L’Aglio dell’Ufita è venduto in mazzetti, e in trecce. La creazione delle trecce era destinata anticamente agli anziani della zona, che avendo problemi deambulatori erano costretti in casa e utilizzavano questa pratica come passatempo, e per contribuire ad alleviare i contadini. Disporre le foglie in trecce è tronata ad essere una tradizione che rischiava di essere perduta insieme all’ecotipo.

Nel territorio irpino è diffuso un detto “duorm comm n’aglier”, significa letteralmente “dormi come un agliere”. Gli aglieri anticamente erano coloro i quali venivano da un altro territorio, con camion piuttosto malandati, per acquistare l’Aglio dell’Ufita. Dopo la pesa, che avveniva molto presto al mattino, gli aglieri erano soliti addormentarsi nel camion per recuperare il sonno perso per il viaggio notturno; da qui il detto, ancora in uso nella zona.

L’aglio possiede numerosi principi attivi molto efficaci e benefici. Contiene in abbondanza: potassio, proteine, sali minerali, vitamine (A, B1, B2 e C). Inoltre, l’aglio è un antibiotico naturale, è in grado di regolare la pressione sanguigna ma anche di ridurre colesterolo e trigliceridi e aiuta a disintossicare fegato e apparato digestivo. Un super food della Dieta Mediterranea.

Nel periodo bellico ha sfamato, insieme al pane, un’intera generazione.

Anticamente era associato agli spiriti ed ai morti. Col passare degli anni ha finito per essere associato ad una funzione protettiva nei confronti delle streghe. Infatti il 24 giugno, notte di San Giovanni, una ghirlanda d’aglio è esposta fuori dalle case proprio per questo scopo.

Per anni è stato escluso dalle cucine dei nobili e dei benestanti per il suo odore e a causa dell’effetto poco gradevole dell’alitosi.


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E ancora…

Insieme all’Aglio Nero, di cui ne è esemplare degno di nota l’Aglio Nero di Pietravairano, prodotto da Roberta Creta nell’alto casertano, l’Aglio dell’Ufita è sempre più richiesto da chef e grandi ristoratori grazie alle proprietà organolettiche che presentano.

Si presta a molte preparazioni, tipiche della cucina dell’Irpinia: alcune preparazioni tipiche come la frittata di aglio fresco, la ciambuttella di Grottaminarda (una ratatouille di verdure della zona dell’avellinese), gli spaghetti alla chitarra aglio, olio e peperoncino e la ciambotta sturnese (piatto a base di peperoni, patate, pomodori).

L’aglio rientra a grande voce tra le eccellenze italiane che il resto del mondo ci invidia. Per questo è ancor più paradossale il fatto che cinesi, giapponesi e in generale gli Asiatici, se ne avessero la possibilità, acquisterebbero tutta la nostra produzione, mentre invece sulle nostre tavole abbiamo visto passare aglio di origine cinese…

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