Quattro chiacchiere sul Made in Italy col prof Marino Niola

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Intervista sul Made in Italy col professor Marino Niola, antropologo, giornalista e divulgatore scientifico, docente di Antropologia dei simboli, Antropologia delle arti e della performance, Miti e riti della gastronomia contemporanea presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli dove coordina il Laboratorio di Antropologia Sociale, il Master in Comunicazione multimediale dell’enogastronomia e dove dirige il laboratorio “MedEatResearch“.

Professor Niola, lei già nel 2012 nel suo libro “Non tutto fa brodo” raccontava dei pericoli dell’Italian Sounding… a 6 anni di distanza, dove nulla è sostanzialmente cambiato, quali crede siano le soluzioni che l’Italia può mettere in campo per difendere le sue eccellenze enogastronomiche?

“L’Italia può mettere in campo diverse soluzioni per difendersi dall’ Italian Sounding che, va detto, è un danno per i nostri produttori, ma nello stesso tempo è anche una grande pubblicità per i prodotti italiani. Quindi io terrei presente anche questo, la capacità che l’Italian Sounding ha di rilanciare il brand Italia, di creare il desiderio di mangiare buoni prodotti Made in Italy. Il problema è quello di dare la risposta giusta a questa domanda crescente e riuscire ad occupare questa fetta di mercato che l’Italian Sounding stesso, di fatto, sta creando. Il cibo italiano, e in generale tutto quello che riguarda le eccellenze italiane, si indirizza verso certe fasce di mercato, questo è inutile dirlo, c’è una fascia di mercato evoluta, con un discreto potere d’acquisto che è disposta a spendere un certo budget per avere cibo di qualità. Quindi nonostante l’imperversare di parmesan, regianito, mozzarina & company, io credo che il cibo italiano abbia un buon avvenire davanti a sé, soprattutto se le nostre istituzioni adotteranno delle strategie di tutela. Però accanto a quello che fanno le istituzioni ci vogliono le idee, le invenzioni, perché oggi sul mercato globale le battaglie non le combattono solo gli Stati ma le combattono le idee, la libera circolazione delle idee. Non a caso siamo in un mondo in cui le economie viaggiano più rapidamente delle politiche perché non sono frenate, non sono ostacolate dagli steccati nazionali, le idee sono fluide, sono liquide. Quindi, anche nel caso del Made in Italy bisogna adottare strategie liquide, usare l’ingegno, mettere in campo proprio quell’ingegno italiano che, nei secoli non ha mai sbagliato, e lo dimostrano anche startup come Authentico.”

Il sistema di etichetta a semaforo Nutriscore, dove le patatine fritte surgelate sono promosse con un bollino verde e l’olio di oliva e la mozzarella di bufala Dop campana sono a un passo dal rosso, può mettere a rischio la nostra celebre Dieta Mediterranea. All’Onu si è votato per l’applicazione di questo bollino sugli alimenti, un metodo sponsorizzato dalla Francia che è già stato adottato da Gran Bretagna e Belgio. Crede che la controproposta italiana di un’etichetta che faccia riferimento ad una porzione specifica e non alla generica misura dei 100 gr. sia capace di controbattere quella che sembra a tutti gli effetti un attacco al Made in Italy?

“Io credo che questa idea un po’ demenziale del sistema di etichette a semaforo, diciamolo pure che è demenziale, perché mettere un disco rosso alla mozzarella e non alla Coca-Cola è assurdo. Però anche questa è una cosa che alla fine non credo che farà danni enormi ai prodotti italiani. Anche perché tra i consumatori di tutto il mondo oggi c’è un passaparola che sta innalzando sempre più la reputazione delle specialità italiane, e in economia, lei me lo insegna, la reputazione è la cosa più importante per un brand. Negli Stati Uniti, per esempio, ho visto che c’è un’attenzione al prodotto italiano veramente notevolissima, sono stato proprio il mese scorso da Di Palo’s a Grand Street, da Dean & DeLuca e altri negozi gourmet, e ho visto che i grandi prodotti italiani ci sono e sono posizionati bene. Non parliamo poi di Eataly che fa un lavoro enorme per la divulgazione delle nostre eccellenze.
Io credo che questa fascia alta di target è in crescita soprattutto nei paesi che una volta si chiamavano “in via di sviluppo” e adesso, invece, sono sviluppati. Paesi che investono sempre più del loro budget nella spesa alimentare di qualità, come accade in Cina, ma anche in Giappone. Addirittura in Giappone, dove non si festeggia il Natale perché sono scintoisti, moltissimi giapponesi sono stati contagiati dalle tradizioni italiane e nel periodo natalizio consumano un pasto a base di pizza e un piatto di simil pasta chiamato Napolitan (o Naporitan) Spaghetti. Questo fa capire qual è la capacità attrattiva del Made in Italy alimentare anche nei Paesi con una storia culinaria millenaria.”

Il Food è uno dei tre elementi più importanti del carattere distintivo del Made in Italy, insieme alla moda e alla cultura/turismo. Come evidenziato da una recente ricerca di EY, per i consumatori esteri il cibo italiano significa qualità, tradizione, eredità e patrimonio culturale, ma le nuove generazioni sono parimenti molto attente alla sostenibilità e all’etica d’impresa. In che misura pratiche scorrette nel settore agroalimentare potrebbero modificare la percezione del cibo italiano all’estero? Qual è la sua visione?

“Accanto alla capacità attrattiva dell’Italian Food c’è anche oggi una domanda nuova con la quale bisogna fare i conti e che non riguarda solo la bontà del prodotto, ma riguarda le sue qualità igienico-sanitarie e soprattutto etiche, questo perché il consumatore oggi è sempre più attento a criteri di carattere etico, quindi vuole che il cibo sia, come dice il mio amico Carlo Petrini, buono, pulito e giusto.
Su questo tema, io penso che le imprese italiane sono già posizionate bene, perché noi abbiamo dei disciplinari molto severi e scrupolosi, sicuramente di più di altri paesi, ad esempio vado spesso in Francia e lì si capisce che i disciplinari alimentari non sono altrettanto rigorosi. Stessa cosa dicasi per le norme igieniche.
Cosa molto importante da rimarcare, la nostra è un’economia alimentare sostenibile, perché i nostri cibi sono sostenibili a differenza di specialità come il foie gras o come l’alimentazione americana dove le carni rosse fa parte del leone. Da noi invece non è così, la dieta mediterranea è l’emblema della sostenibilità agroalimentare, che non a caso le Nazioni Unite hanno riconosciuto. Bisogna dire che su questo argomento all’ONU soffrono di schizofrenia acuta, perché da un verso eleggono la dieta mediterranea Patrimonio dell’Umanità e dall’altro, valutano l’adozione delle etichette a semafori; evidentemente ci sono spinte di ogni tipo alla base di questa schizofrenia. Quindi diciamo che bisogna stare molto attenti a non perdere credibilità ma che tutto sommato l’Italia secondo me è ben posizionata anche in questa rincorsa verso il futuro.”

Con un consumo interno in contrazione, la vera sfida del cibo italiano è crescere sui mercati esteri. Per le aziende italiane diventa importante capire se l’asset del marchio Made in Italy sia sufficiente per parlare ad un moderno consumatore che ha esigenze informative nuove e molto variegate. Professore, lei che è un acuto osservatore, quanto crede sia importante per il consumatore estero conoscere la provenienza delle materie prime, il processo di lavorazione e la tracciabilità?

“Io credo che per il consumatore di cui stiamo tracciando il profilo, un consumatore di fascia medio-alta, acculturato, che vive in grandi centri urbani e con una marcata sensibilità ecologica ed etica, sia importantissimo conoscere l’origine di quello che sta mangiando, quindi esige di sapere la tracciabilità delle materie prime, la sostenibilità ambientale e la sostenibilità etico-morale. Facendo la somma, io penso che tutto questo possa diventare un coefficiente nuovo che rappresenta il plus, l’arma in più del Made in Italy. Anche perché poi nel nostro caso non è difficile, perché la cucina italiana si compone di cibi semplici con ingredienti distinti e non di assemblaggi dove diventa tutto più complesso. A tal proposito, sono convinto che anche startup come Authentico possano essere un’arma strategica proprio perché a disposizione del consumatore, affinché si possa orientare in questa giungla di offerte ed essere indirizzato verso prodotti italiani che offrono garanzie sempre maggiori. E oltretutto strumenti come questo possono contribuire a una narrazione sempre migliore, sempre più approfondita e sempre più persuasiva delle eccellenze del Made in Italy che, non a caso non sono prodotti inventati da un giorno all’altro. Chiunque può pensare di riuscire a produrre il Parmigiano ma il risultato non sarà mai il vero Parmigiano Reggiano. La stessa cosa dicasi per chiunque può fare la mozzarella in un retrobottega anche di Manhattan ma non sarà mai la Mozzarella di Bufala Campana, come giustamente dice Lou Di Palo quando qualcuno gli chiede se si tratta di mozzarella, e lui risponde che al massimo è fior di latte.”

“In conclusione, io credo che anche questi produttori esteri, molti di origine italiana che producono finto cibo italiano, in realtà non tolgono spazio al nostro mercato, anzi posizionandosi spesso con dei prezzi più bassi aprono nuove fasce di mercato perché creano il bisogno e il desiderio nel consumatore di assaggiare poi appena possibile il prodotto originale.”