Da qualche anno si è riscoperto il valore del cibo spontaneo e selvatico, una pratica affascinante che si chiama foraging. È questa la vera sostenibilità?
Si chiama foraging, termine nuovo per una nuova moda, anche se in realtà la pratica di raccogliere il cibo che cresce spontaneo in natura è vecchia quanto il mondo. Il termine italiano c’è, ed è “alimurgia”, che significa, letteralmente, scienza che studia l’utilizzo nel cibo selvatico in cucina. Soprattutto nei momenti di carestia e povertà. Non solo frutti di bosco, funghi e castagne, ma anche erbe, fiori, bacche selvatiche, e persino alghe. Torna così in auge il mestiere del raccoglitore. Del resto fino all’avvento dell’industrializzazione a fine Ottocento il pasto quotidiano era tra il 70 e l’80% selvatico, le cose coltivate venivano vendute e ci si alimentava con ciò che non aveva valore.
Così, chef stellati come René Redzepi, del ristornate Noma di Copenhagen, o Norbert Niederkopfer del ristorante St. Hubertus di San Cassiano in Badia ma anche il Wood*ing di Milano, propongono piatti all’insegna della stagionalità e un’idea di gusto basato sulla consapevolezza di ciò che si mangia.
Il ruolo sociale del foraging
Dall’Europa arrivano studi e progetti che lo riconoscono come una pratica in grado di generare crescita e occupazione per le comunità rurali. Quando nel 2000 Kofi Annan, Segretario Generale dell’Onu ha introdotto il Millennium Ecosystem Assessment per studiare le conseguenze dei cambiamenti degli ecosistemi sull’umanità, è nato anche il progetto europeo Startree, sul potenziale commerciale del wild food. Le foreste di quattordici nazioni da cui si ricavano oltre 150 prodotti non legnosi (siglati Nwfp dalla Fao: frutti di bosco, funghi, sughero, noci, erbe officinali, oli essenziali) che possono essere venduti sui mercati internazionali.
Foreste e silvicoltura, oltre a essere essenziali per la sicurezza alimentare, possono rappresentare un’integrazione della produzione agricola e contribuire al reddito della popolazione locale.
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Può essere un controsenso?
Il foraging (sebbene non risponda esclusivamente al richiamo del primitivismo modaiolo della cucina nordica), nel tentativo di proteggere la biodiversità, sostenere una forma di decrescita e incentivare la conoscenza delle materie prime, può diventare un progetto esclusivo. Oltretutto è necessario saper conoscere bene e studiare quali sono gli elementi della natura commestibili e non pericolosi per la nostra salute.
Sebbene il fulcro è rappresentato da alimenti che per il loro essere spontanei dovrebbero essere appannaggio di tutte le classi sociali, corre il rischio di diventare una prerogativa delle classi più agiate. Per il momento, sono infatti ristoranti stellati che stanno innalzando il foraging a simbolo dell’alta ristorazione.
L’utile e il dilettevole
È innegabile che la riscoperta di valori come la sostenibilità, il rispetto della natura originaria del territorio, delle stagioni, unita alla volontà di limitare i consumi, riciclare gli avanti, valorizzare ingredienti considerati umili e assumere delle abitudini tipiche di un’economia di sussistenza, sia anche un modo per rispondere positivamente alla crisi economica post pandemia. Certo che fin quando saranno solo i ristoranti stellati a proporre questo ritorno alle origini, poco si potrà fare per contribuire agli effetti positivi di questa nobile tendenza.
Non è forse nostra la responsabilità di aver dimenticato un’abitudine antichissima, un’arte vera, appartenente alla nostra cultura gastronomica da secoli, e che ha contribuito a definire specificità e differenze in cucina?
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