Quali sono le 10 parole più usate nel marketing per vendere la pasta?

pasta artigianale e marketing

La comunicazione della pasta ruota sempre intorno agli stessi concetti: trafilata al bronzo, essiccata lentamente a basse temperature, etc., Ecco le 10 parole più usate dai brand italiani e il loro significato tra marketing e verità.

Gli uomini di marketing conoscono bene che l’immaginario della pasta italiana gira intorno a pochi basilari concetti che riecheggiano nelle menti dei consumatori e che i pastifici non mancano di sottolineare sulle confezioni di pasta, laddove la legge o un disciplinare lo consenta. Non tutti però conoscono bene il vantaggio della buona pasta artigianale che si cela dietro la comunicazione. Davanti alla variegata offerta a scaffale dei numerosi marchi di pasta si può acquistare una pasta prodotta con grano italiano, trafilata al bronzo ed essiccata lentamente a basse temperature solo perché siamo indotti a credere che queste siano le caratteristiche che sicuramente la pasta migliore dovrebbe avere. Noi di Authentico, sempre dalla parte dei consumatori, abbiamo studiato, tra 58 marchi in commercio, quali sono le diciture più frequenti. Ed ecco la top 10 delle caratteristiche più utilizzate dalle aziende di pasta italiane.

  1. Pasta di alta qualità (76%)

“Cicero pro domo sua” dicevano i latini. Cosa definisce la pasta di alta qualità? Questo concetto autoreferenziale è molto abusato nella comunicazione, infatti si posiziona al primo posto. In Italia abbiamo addirittura una legge, la legge di purezza della pasta (legge n. 580 del 4 luglio del 1967) in base alla quale è stabilito che la pasta italiana deve essere prodotta con semola di grano duro, solo con l’aggiunta di acqua e senza additivi, e che il tenore proteico deve essere almeno del 10,5%. Sicuramente un po’ poco per definire la qualità. Possiamo dire che le caratteristiche che una pasta di alta qualità dovrebbe avere sono: un buon sapore, capace di trattenere i sughi, essere tenace da resistere alle cotture più impegnative, non rompersi, restare al dente anche dopo averla scolata e rilasciare poco amido.

  1. Trafilata al bronzo (72%)

I pastifici possono scegliere tra diversi materiali per le loro trafile, bronzo, teflon o anche oro. Per trafila si intende la “sagoma” o matrice di metallo da cui viene estruso (cioè viene spinto) con una certa pressione l’impasto di acqua e semola. Quella di bronzo è costituita da un pesante disco di bronzo forato e sagomato per dare un determinato formato alla pasta. I pastifici industriali utilizzano prevalentemente le trafile in teflon (una plastica politetrafluoroetilene), perché fa meno attrito e in questo modo si velocizza la produzione. Il risultato è diverso in base al materiale utilizzato, la pasta trafilata al teflon non avrà capacità di trattenere i sughi come quella trafilata al bronzo. Il processo di trafilatura è molto importante anche perché non deve in alcun modo andare a modificare le proprietà organolettiche del prodotto. Per la trafilatura la bronzo è necessaria una semola di alta qualità che risente meno dello stress da attrito causato dalla pressione. La trafilatura al bronzo, se eseguita correttamente, conferisce capacità di trattenere i sughi anche ai formati lisci. Non ci sono evidenze che le trafile in oro (in realtà si tratta solo degli inserti e non dell’intero disco della trafila) conferiscono particolari caratteristiche alla pasta.

  1. 100% italiana (64%)

Conoscere l’origine della materia prima è una tendenza che si è affermata negli ultimi 10 anni. Chi si occupa della comunicazione conosce molto bene questo trend. In particolare, in Italia, i consumatori cercano e comprano prevalentemente prodotti realizzati con materie prime italiane. Nello specifico,per quanto riguarda il grano duro usato nella pasta, questa richiesta di semola italiana nasce dalla diffusa consapevolezza che alcuni grani duri esteri presentavano dei residui di glifosato (un diserbante), anche se contenuti nei limiti previsti dalla legge. Come per l’olio di palma, il dibattito pubblico ha diffuso la convinzione che il grano estero fosse tutto contaminato. Sicuramente ci sono dei territori di alcuni paesi dove per una serie di motivi si usano diserbanti ed altri trattamenti chimici nei campi di grano, a volte anche per velocizzare la maturazione delle spighe, ma ricordiamo che in Italia non entra ufficialmente merce che non sia compatibile con i valori soglia ammessi dalla comunità sanitaria europea.

  1. Lenta essiccazione a basse temperature (60%)

Anche in questo caso marketing, tanto marketing. 6 pacchi di pasta su 10 sarebbero essiccati lentamente. La ragione è che la pasta essiccata lentamente a bassa temperatura garantisce un prodotto migliore. Le proprietà della semola restano intatte e preservano la gelatinizzazione degli amidi e la coagulazione proteica, processi che avverranno durante la cottura e non durante l’essiccazione, com’è giusto e salutare che sia. Ciò significa che gli amidi saranno ben trattenuti dal reticolo proteico durante la cottura. In parole povere, l’essiccazione a bassa temperatura non danneggia la struttura del glutine della pasta, non impoverisce le proteine e favorisce omogeneità nella cottura. Ad alte temperature, invece, la pasta subisce esternamente un processo di plastificazione che ha come conseguenza un tempo di cottura elevato e non uniforme. Resterà cruda all’interno e cotta esternamente dando la finta percezione di una pasta al dente che sarà, però, meno digeribile. La lenta essiccazione a basse temperature è un ossimoro quando si parla di pasta industriale. Solo il disciplinare della Pasta di Gragnano IGP stabilisce un range di valori per quanto riguarda la temperatura e la durata di essiccazione. Capirete che per il resto della pasta non essendoci valori di riferimento ognuno può far credere di essiccare per tante ore ad una certa temperatura.


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  1. Artigianale (34%)

Negli ultimi anni si è assistito ad un crescendo dell’utilizzo del termine “artigianale” sulle confezioni, con l’intento di trasferire al consumatore l’idea di un prodotto qualitativamente superiore ad un altro della stessa categoria e così influenzarne o facilitarne l’acquisto. Ma mentre per alcuni prodotti la definizione di artigianale è letterale, come ad esempio la pasta fatta a mano, per la pasta secca il senso è più figurativo, perché si riferisce alla lavorazione per lo più, ed è quindi una garanzia fornita al consumatore sul metodo. Non essendoci una legge che definisce la pasta artigianale, l’utilizzo di tale dicitura potrebbe ingannare il consumatore, ed è per questo che ad esempio, il Consorzio della Pasta di Gragnano IGP vieta a propri associati di apporre la dicitura artigianale (pastificio artigianale o “pasta di Gragnano artigianale”) sulle confezioni.

  1. Ruvida (26%)

Un termine ritornato in voga di recente che restituisce il senso di lavorazione grezza, non raffinata.Di fatto applicabile esclusivamente alla pasta trafilata al bronzo.La pasta artigianale risolve la credenza infondata che i formati rigati trattengano meglio i sughi rispetto a quelli lisci. Molto nota è la diatriba tra la preferenza degli italiani per le penne rigate rispetto a quelle lisce (non acquistate neppure nel periodo covid). Il formato zigrinato fa pensare che esso trattenga più il sugo. Questa è una credenza diffusa dai pastifici industriali che utilizzano le trafile in teflon che non “graffiano” la pasta liscia come avviene per le trafile al bronzo.Durante la cottura, lo “scalino” della penna rigata fa sì che la pasta non si cuocia in maniera uniforme. A fine cottura, infatti, il cuore della pasta (la valle) sarà più indietro, mentre la superficie più esposta (il monte) sarà stracotta e si sfalderà nel momento in cui la pasta viene condita, creando una emulsione, ricca di amido, che interferisce con l’equilibrio ricercato tra condimento e pasta. Con la pasta artigianale trafilata al bronzo, anche i formati lisci sono così porosi e ruvidi da trattenere tutti i tipi di sughi.

  1. Filiera corta (26%)

Nel caso della pasta si può definire “filiera corta” quella adottata dai pastifici che producono il proprio grano in campi di proprietà o sottoposti a conduzione agronoma diretta dall’azienda. Il tutto avviene a pochi km di distanza. Anche questo è un termine abusato perché viene usato anche quando l’azienda ha dei fornitori di semola e non ha alcun controllo sulla materia prima se non dei contratti di filiera con le aziende agricole.

  1. Sostenibile (22%)

Sostenibilità è il claim dell’anno. Che poi senza la specifica (ambientale, economica, sociale) non vuol dire nulla. Sulla sostenibilità ambientale ci sarebbe molto da dire. I problemi legati al climatechange hanno coinvolto tutte le aziende, sia perché sinceramente coinvolti, sia per cavalcare strategicamente l’importanza che sempre più consumatori danno a questo aspetto, prediligendo aziende che ne fanno un mantra. Dimostrare poi che si è veramente sostenibili è tutta un’altra storia.

 

  1. Monograno (21%)

Un’altra strategia di differenziazione consiste di usare un’unica varietà di grano. Nasce quindi il termine “monogragno” usato dal 21% dei marchi analizzati, che si contrappone alla “miscela di grani” che da sempre viene realizzata per creare una semola bilanciata e dalle caratteristiche desiderate dal mastro pastaio. Tra le mono varietà di grano più usate c’è sicuramente la Senatore Cappelli. Ma troviamo anche il farro dicocco, il kamut (Khorasan), il Timilia (o Tumminia) spesso definiti anche “grani antichi”, un’altra parola marketing molto amata dai pubblicitari.

  1. Biologica (20%)

Chiude la top ten (in ribasso come tendenza) il termine Bio. La differenza che c’è tra una pasta biologica e una pasta convenzionale è la provenienza del grano utilizzato per la semola, che nel caso della prima proviene da coltivazione biologica. La filosofia del biologico non ammette l’uso di sostanze chimiche nelle coltivazioni, è un tipo di agricoltura in cui si adotta solo l’impiego di sostanze naturali, come da normativa comunitaria. Infatti, ci sono degli Enti certificatori che controllano in maniera rigida le aziende biologiche in tutte le loro fasi: produzione agricola, trasformazione, etichettatura e commercializzazione. Secondo uno studio, un numero crescente di consumatori è convinto che la scritta “bio” sia solo una azione di marketing, posizionata sapientemente per poter caricare di un sovrapprezzo all’alimento.

Oltre questi termini utilizzati dalle aziende sulle confezioni dei propri prodotti, e strettamente correlati, ce ne sono altri che le aziende stanno cominciando a sottolineare sempre di più. Alcuni sono un’estensione di quanto già chiarito in questa classifica e ci riserveremo di approfondirli prossimamente per voi. Non perdeteveli!


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