E’ possibile un mondo senza mucche?

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Cosa accadrebbe se domani sparissero le mucche dalla faccia della Terra?
Un’ipotesi che sembra assurda ma che diventa lo spunto centrale del documentario World Without Cows. Dietro questa provocazione si nasconde un dibattito cruciale: possiamo davvero parlare di sostenibilità senza affrontare con onestà il ruolo del settore zootecnico?

Abbiamo visto World Without Cows (un mondo senza mucche) un documentario realizzato dai giornalisti Michelle Michael e Brandon Whitworth, prodotto da Planet of Plenty, progetto internazionale promosso da Alltech. Girato in oltre 40 località del mondo, sfidando vegani, animalisti e attivisti ambientalisti, esplora una domanda provocatoria: “Saremmo meglio in un mondo senza bovini?”

La docufilm si concentra su quattro aspetti chiave:

  • ambiente: emissioni CO2, gestione dei pascoli, biodiversità;
  • nutrizione: ruolo delle proteine animali e dei micronutrienti difficili da reperire altrove;
  • economia: impatto sugli allevatori e sulle comunità rurali;
  • cultura: tradizioni gastronomiche, identità e valori sociali legati all’allevamento.

La narrazione, arricchita da testimonianze di scienziati, agricoltori e comunità locali, cerca di superare i facili slogan che inneggiano a stili di vita sostenibili, per proporre una visione più articolata. Anche se, non possiamo non registrare che essendo prodotto da Alltech, azienda leader nella nutrizione animale, il rischio di conflitto di interessi è piuttosto evidente.

Il nodo ambientale: emissioni e oltre

È indubbio che il bestiame contribuisca alle emissioni di gas serra. Secondo la FAO, l’intero comparto zootecnico incide per circa 11-14% delle emissioni antropiche globali. Se restringiamo l’analisi ai soli bovini, la cifra scende a 5-7%, come evidenziato dal documentario.

La questione però è più complessa.

Le mucche emettono metano enterico, un gas serra potente ma a vita breve, la cui gestione richiede strategie mirate e diverse rispetto alla CO₂.

Allo stesso tempo, i bovini upcyclano risorse non edibili per l’uomo (erba, scarti agricoli, residui vegetali) trasformandole in proteine nobili. “Upcyclano” significa che prendono qualcosa che per noi non ha valore (o che non potremmo utilizzare) e lo trasformano in qualcosa di utile e prezioso. Nel caso delle mucche: noi non possiamo mangiare erba, fieno o scarti agricoli; le mucche invece li trasformano in latte, carne e quindi in proteine nobili per l’alimentazione umana.

In molti sistemi di allevamento estensivo (quindi non intensivo), contribuiscono a mantenere la salute dei suoli e a preservare la biodiversità dei pascoli.

Grazie a buone pratiche come il rotational grazing (invece di lasciare le mucche sempre nello stesso prato, l’allevatore divide i pascoli in più aree e sposta periodicamente gli animali da una zona all’altra) o l’uso di additivi nutrizionali a poter fare la differenza, riducendo l’impatto climatico senza azzerare un comparto vitale.

Il valore socio-economico degli allevamenti

Spesso il dibattito pubblico si concentra solo sulle emissioni, dimenticando che oltre 1,3 miliardi di persone nel mondo dipendono direttamente o indirettamente dall’allevamento per vivere.

Non parliamo solo di occupazione, ma anche di:

  • accesso a cibo nutriente in aree con insicurezza alimentare;
  • sostegno a economie rurali fragili, specialmente nei Paesi in via di sviluppo;
  • salvaguardia di tradizioni agricole e culturali radicate nei territori.

La FAO stima che entro il 2050 la domanda di proteine animali crescerà del 21%. Un dato che ci obbliga a considerare l’allevamento come parte integrante delle soluzioni, non solo dei problemi. Se in un futuro immaginassimo esclusivamente carne sintetica prodotta in laboratorio da poche multinazionali è evidente che non tutti potrebbero avere accesso.

Il caso italiano: un settore in forte ridimensionamento

Se allarghiamo lo sguardo al nostro Paese, i numeri raccontano una storia preoccupante.

  • Nel 2010 l’Italia copriva circa il 60% del fabbisogno nazionale di carne bovina; oggi siamo scesi al 40%.
  • Dagli anni ’80 a oggi, gli allevamenti italiani sono diminuiti del 76%.
  • A livello europeo, tra il 2010 e il 2020 sono scomparse circa 3 milioni di aziende agricole, pari a quasi un quarto del totale. La popolazione bovina è calata del 30% dagli anni ’80.

Questi numeri fotografano un comparto in difficoltà, spesso penalizzato da politiche disomogenee e da una narrazione pubblica che in Italia, dove gli allevamenti intensivi sono pochi, rischia di confondere percezioni e realtà.

Biodiversità, tradizioni e servizi ecosistemici

Ridurre l’allevamento a una questione puramente climatica è un errore.
Senza bovini rischiamo di perdere:

  • ecosistemi di pascolo che ospitano una biodiversità unica;
  • servizi ambientali come il ciclo dell’azoto e il sequestro di carbonio nei suoli;
  • intere tradizioni gastronomiche, dalla carne Chianina in Toscana, la Marchigiana e la Frisona, fino alle produzioni lattiero-casearie delle Alpi e del Sud Italia.

C’è anche un tema di accessibilità: mentre la carne coltivata in laboratorio rimane oggi costosissima e lontana dal mercato di massa, i bovini garantiscono ancora l’accesso a proteine di qualità a prezzi ragionevoli.

Una questione di narrazione

Il merito di World Without Cows è quello di stimolare il dibattito con una domanda estrema. È un documentario utile, che ci invita a riflettere non solo sulle emissioni ma anche su tutto ciò che perderemmo senza allevamenti.

La “nota stonata” è l’evidente legame con Alltech, che solleva dubbi di imparzialità. Eppure, la forza del film sta proprio nel mettere a confronto punti di vista scientifici, culturali ed economici che raramente convivono nello stesso spazio mediatico.

Verso quale futuro per la carne?

Non esiste una risposta unica. Probabilmente il futuro della carne passerà da diversi scenari:

  • riduzione degli sprechi e miglioramento delle efficienze produttive;
  • innovazioni tecnologiche nella nutrizione animale per abbattere le emissioni;
  • allevamenti più sostenibili, soprattutto in Europa, dove la densità è già inferiore rispetto ad altre regioni del mondo;
  • scelte consapevoli dei consumatori, sempre più attenti alla trasparenza delle filiere e all’impatto delle proprie decisioni alimentari (ad esempio ricordiamo che nella Dieta Mediterranea la carna è prevista una sola volta a settimana).

Il documentario World Without Cows non può offrire risposte definitive, ne le avremmo accettate, ma è stato utile ad aprire una finestra importante su un tema che tocca ambiente, economia, salute e cultura delle tradizioni.

Il settore zootecnico non può essere cancellato con un tratto di penna, né idolatrato senza condizioni. Serve un approccio equilibrato, basato su dati, scienza e rispetto delle comunità che dall’allevamento dipendono.

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