L’invasione dei cibi “senza”. Spiegato il motivo del successo dei “free from”

L'invasione dei cibi "senza". Spiegato il motivo del successo dei "free from"

Se come diceva il filosofo Ludwig Feuerbach “L’uomo è ciò che mangia”, dal nostro carrello della spesa si può capire realmente chi siamo? Davvero il cibo condiziona ciò che siamo e le nostre scelte o siamo semplicemente attratti come le mosche dal marketing delle etichette rassicuranti?

Un tempo era lo zucchero, poi è arrivato il sale, i conservanti, ed infine i grassi saturi e l’Olio di Palma. Oggi sempre più consumatori scelgono prodotti senza lieviti, senza glutine e senza lattosio. Cambiano gli stili di vita degli italiani, apparentemente sempre più attenti alla salute e alla dieta, e cambia anche il carrello della spesa. Cibi che un tempo erano di nicchia, rispondenti alle esigente di un target specifico, che purtroppo ha seri problemi di salute, ora sono una parte consistente del fatturato alimentare. Insomma sembra che dal prodotto deve per forza mancare qualcosa e così, sull’onda del salutismo diffuso, il mercato del “ free from ” continua a crescere.

In effetti basta guardarsi intorno in un supermercato per capire che il mondo è pieno di persone che si sono improvvisamente scoperte celiache o intolleranti al lievito o al lattosio, molti senza neppure sottoporsi ad analisi cliniche. C’è da chiedersi se la salute dei consumatori italiani sia così tanto peggiorata negli ultimi anni! Eppure, ad esempio, i dati epidemiologici dicono che la celiachia interessa solo l’1% della popolazione, quindi la maggior parte delle volte non c’entrano intolleranze o allergie, ma probabilmente si finisce per acquistare prodotti perché convinti che facciano bene alla salute, perché dopo l’abbuffata di additivi si pensa che il “senza” significa salutare, non nocivo. Oppure perchè è diventata una nuova moda, come anni addietro lo erano i prodotti Light o Diet.

Le indicazioni “ free from ” mietono, così, grandi consensi e a rivelarlo è la seconda edizione dell’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy. Lo studio ha evidenziato che il 18,4% dei prodotti alimentari in commercio hanno un claim con la dicitura “cibo senza”, tanto da generare nel 2017 circa 6,5 milioni di euro di vendita, crescendo in un anno del 3,1%.

L’indicazione più utilizzata è “senza conservanti” (7,7 % dei prodotti), poi “pochi grassi” (4,9%) e “senza coloranti” (3,8%). Eppure le vendite di questi prodotti sono calate, probabilmente perché non fanno tendenza come “senza zucchero” e “senza olio di palma”, componenti considerate poco sane. Quello che fa pensare è il trend crescente del “poche calorie” e “senza sale”, a conferma del maggior interesse alla salute. Tra i best performer restano i “senza lattosio”, che sono arrivati a rappresentare, nel 2017, il 2,3% dell’offerta complessiva del largo consumo alimentare in Italia, con prodotti non solo lattiero-caseari ma anche per i salumi. La performance più positiva del 2007 è stata, però, quella dei prodotti “senza glutine”, che hanno rappresentato l’11,7% dell’offerta, con un fatturato aumentato del 4,1% rispetto al 2016.

Nel contempo assistiamo ad un paradosso: da una parte la diffusione dei cibi “senza”, dall’altra l’esplosione dei cibi “con” (rich-in), prodotti in cui compare il claim che comunica la presenza importante di una componente nutrizionale positiva, come ricchi di fibre, ricchi di calcio, ricchi di vitamine o di Omega 3. Siamo di fronte a tendenze di consumo che mutano velocemente dove, come nel dilemma dell’uovo e della gallina, non è ben chiaro se tali trend siano creati ad arte dalle aziende o siano invece dei nuovi bisogni da soddisfare.

Ma davvero i consumatori sono così reattivi alle scoperte scientifiche su come il cibo influenzi la salute e il benessere o è stato ancora una volta il mercato e il marketing a creare nuovi falsi bisogni?

È difficile pensare che mostrare l’assenza o la presenza di un ingrediente sulla confezione può bastare da solo a creare una tendenza. A questo punto si potrebbe pensare che questo generi solo più confusione nei consumatori e, in un certo senso, addirittura li inganni. Ed è proprio su questo punto che a febbraio la Commissione per gli Affari Economici e Monetari del Parlamento Europeo ha approvato un emendamento, proposto dagli europarlamentari italiani Fulvio Martusciello e Alberto Cirio,  in cui si chiede di vietare indicazioni su ingredienti non presenti, limitando i claim ai soli ingredienti presenti effettivamente nel prodotto. Conosciamo tutti, per esempio, come il caso della dicitura “senza olio di palma” abbia dato rilevanza alla tematica dei “ free from ”.

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Ma impedire i “senza” non sarebbe poi il contrario di trasparenza? L’informazione sui prodotti alimentari è un elemento fondamentale
e l’etichetta è il primo posto fisico per entrare in contatto con il consumatore, educarlo e soddisfare la sua esigenza di informazioni complete e trasparenti. Informare bene diventa, dunque, una mission per le aziende che dispongono di strumenti in grado di costruire una relazione di valore con loro.