7 motivi per cui siamo solo al 5° posto nella classifica export agroalimentare

export agroalimentare italia

Abbiamo il cibo più ricercato del pianeta, siamo i primi al mondo per numero di prodotti di qualità DOP IGP STG, eppure siamo solo quinti in Europa nella classifica delle esportazioni! Scopri le 7 principali cause di un paradosso tutto italiano

Sebbene ancora lontani dall’ambizioso obiettivo che il Paese si è dato dei 50 miliardi di export agroalimentare entro il 2020, bisogna essere molto soddisfatti dei grandi risultati raggiunti negli ultimi 10 anni. Infatti, nel periodo tra il 2007 e il 2017, il valore delle esportazioni agroalimentari italiane è passato da 22 a 41 miliardi di euro. Un vero record e di sicuro un bel passo avanti!

La società di consulenza Nomisma, giovedi 13 marzo, ha presentato i dati aggiornati dell’ export agroalimentare in occasione del convegno a Bologna “L’agroalimentare italiano alla prova dell’internazionalizzazione”, numeri che da un lato celebrano i risultati positivi e dall’altro spingono ad una seria riflessione sul settore agroalimentare italiano che vorremmo condividere con voi lettori.

 

export agroalimentare grafico

Come si può notare dalla tabella sopra, realizzata dai nostri analisti che hanno incrociato i dati del report Nomisma con quelli Ismea-Qualivita, siamo di fronte ad un evidente paradosso: nonostante abbiamo il numero più alto di prodotti di qualità DOP/IGP/STG (818 prodotti tra wine & food nel 2017) il nostro export “Made in Italy” si colloca solo in quinta posizione in Europa, alle spalle di Olanda, Germania, Francia e Spagna. L’Olanda, che ha solo 34 prodotti a denominazione, è al primo posto con un fatturato di export agroalimentare pari a più del doppio di quello italiano.

Questa è la dimostrazione pratica di come la brand reputation da sola non sia condizione sufficiente per affrontare i mercati internazionali e garantire una leadership nell’export del wine & food.

Ma quali sono le principali cause? I dati degli ultimi 10 anni ci portano a individuarne almeno 7

  1. Dimensioni: aziende piccole, poco strutturate

    In Italia solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti – contro il 10,5% della Germania o il 4,1% della Spagna – ed è in grado di esportare circa il 30% della propria produzione. Come ha dichiarato Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma: “Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore”.
    L’estrema frammentazione del sistema produttivo italiano, basato su una miriade di micro e piccole imprese, genera un gap di competitività del nostro tessuto imprenditoriale, sicuramente ancora poco strutturato per affacciarsi all’estero. 

  2. Bassa propensione all’internazionalizzazione

    Le aziende italiane, nonostante un mercato interno stagnante e regolato da una forte concorrenza e dalle leggi di mercato imposte dalla GDO, continuano ad avere una ridotta propensione all’ export agroalimentare (media di poco superiore al 20%): basti pensare che l’industria alimentare tedesca esporta circa il 35% di quanto produce, eppure i suoi prodotti non sono così famosi come i nostri. Si potrebbe, per esempio, prendere a modello il comparto vinicolo che esporta per oltre il 50% della produzione sui mercati esteri, circostanza che ha consentito a molte imprese del settore di compensare la riduzione della domanda sul fronte interno.

  3. Focalizzazione sui mercati confinanti, a minore potenzialità rispetto a quelli lontani

    Anche quando esportiamo preferiamo restare vicino ai nostri confini. Il report di Nomisma evidenzia che due terzi dell’export agroalimentare italiano sono destinati a mercati “di prossimità” (Paesi dell’Unione Europea), mentre la restante quota si distribuisce tra America (13,5%), Asia (9%), altri Paesi Europei (7,6%) e Africa (2,4%). Questo rappresenta un forte limite perché i mercati lontani (soprattutto i mercati emergenti) hanno un potenziale molto più alto, parliamo di Cina, Medio Oriente o alcuni paesi del centro-sud America.

  4. Poche piattaforme distributive

    Il rafforzamento dell’export passa attraverso il potenziamento della logistica, anche mediante lo sviluppo di piattaforme distributive all’estero. Mentre i nostri competitor tedeschi, inglese e francesi possono godere di grandi piattaforme estere (Auchan, Carrefour, Metro, Aldi, Tesco), da noi le più grandi catene distributive sono quasi tutte cooperative e, come tali, sono focalizzate sui “soci” consumatori italiani e non hanno interesse ad espandersi fuori confine. Anche la scarsa presenza all’estero degli istituti di credito italiani costituisce un problema per un’ azienda nostrana, che si trova impegnata ad operare in un mercato lontano senza il supporto di una banca che parli la stessa lingua.

  5. Troppi prodotti

    Come dice spesso Oscar Farinetti, esaltando la biodiversità italiana, “In Europa esistono 1.200 varietà di mele e in Italia ne abbiamo oltre 1.000.” La  ricchezza del nostro patrimonio è una grande risorsa, ma può anche rappresentare un limite. Una polverizzazione dell’offerta rende difficile la comunicazione, soprattutto all’estero, abituati con i nostri concorrenti (le uve utilizzate per la produzione di vino in Francia sono circa 40, di cui solo la metà hanno rilevanza commerciale all’estero, in Italia ci sono oltre 600 vitigni autoctoni). Come teorizzava Barry Schwartz nel libro “Il paradosso della scelta“: una proposta costituita da molte scelte attira di sicuro, ma finisce per disorientare il consumatore rendendo difficile il processo decisionale d’acquisto. Ne è testimonianza il fatto che la top ten dei prodotti agroalimentari di qualità esportati producono l’80% del fatturato totale.

  6. Quantità limitate

    Sulla produzione il divario nasce dal fatto che l’Italia ha una superficie agricola inferiore a Francia, Germania e Spagna. I nostri competitor spesso giocano su produzioni in cui il prezzo medio di esportazione dei prodotti è più basso, perché gode di una competitività di costo molto più elevata. Noi, invece, ci posizioniamo su nicchie all’interno del mercato globale. Senza sacrificare le specialità delle produzioni a maggior valore, l’Italia potrebbe puntare sull’esportazione di prodotti più “standard”, facilmente identificabili ed esportabili in grandi quantità.

  7. Atteggiamento ostile verso gli accordi bilaterali di libero scambio

    Le barriere tariffarie e (soprattutto) non tariffarie che ostacolano le nostre esportazioni agroalimentari in alcuni importanti mercati rappresentano degli sbarramenti insuperabili, spesso frutto di una “ritorsione” ai dazi e alle limitazioni imposte dall’Unione Europea. Gli accordi commerciali giocano un ruolo di primo piano; ne è una dimostrazione pratica quanto sta accadendo sul mercato del vino in Cina, dove Australia e Cile, grazie ad accordi bilaterali che hanno azzerato i dazi all’importazione, hanno eroso più del 10% del mercato a Italia, Francia e Spagna. Di fronte allo scenario  geopolitico globale caratterizzato da repentini mutamenti, come la Brexit e la politica protezionistica di Trump, in Italia alcune associazioni impiegano il tempo a litigare e a dire NO a qualsiasi trattato commerciale di libero scambio, mentre all’estero fanno gli accordi e muovono il business.

La produzione enogastronomica italiana si contraddistingue per un forte legame con il territorio, una tradizione che incarna tutto quell’insieme di valori unici e irripetibili che il Made in Italy è in grado di esprimere e di evocare nell’immaginario del consumatore estero. Ma essere il Belpaese non basta. Non è sufficiente avere cibi di qualità circondati da arte, storia e bellezza. Occorre far conoscere tutto questo, renderlo accessibile ed efficiente. E qui entra in gioco l’innovazione, che non vuol dire necessariamente prodotti nuovi, ma modi nuovi di produrre e commercializzare cibi antichi, già perfetti così. Le aziende dovrebbero, soprattutto, innovare i processi e i modelli organizzativi. Per quelle che vogliono affacciarsi all’estero, o rafforzare le proprie quote di mercato oltre frontiera, è essenziale dotarsi di staff di professionisti dedicati e definire strategie di marketing mirate.

Bisogna, in particolare, comprendere il peso strategico della comunicazione, tradizionale e digitale, un’informazione trasparente e diretta a chi ama il nostro cibo, ma non parla la nostra lingua, e soprattutto non è così esperto da saper distinguere facilmente una qualsiasi delle nostre eccellenze da un tarocco con un nome che “suona italiano” vestito da un tricolore.

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